Competizione e rivalità.

La competizione fa parte della natura. Il desiderio di accaparrarsi per sé o per il proprio gruppo le limitate risorse (trattasi di cibo, di un partner, di un posto di lavoro, di un premio, di una prima posizione in classifica) o di reagire ad un oggettiva minaccia di pericolo o perdita, sono situazioni che potremo definire competitive.

La competizione tra due soggetti o gruppi, in termini puramente pratici, rappresenta una condizione in cui il raggiungimento di un obiettivo da parte di uno si associa all’inevitabile fallimento dell’altro. Il concetto di rivalità sembra invece andare oltre a questo.

 

La rivalità implica un coinvolgimento psicologico ulteriore ed una generalizzazione della posta in gioco. Nella rivalità il significato attribuito all’esito della competizione è maggiore del semplice accaparramento delle risorse, in questi casi infatti l’oggetto di contesa è l’intera reputazione o status del soggetto o gruppo, e la posta in gioco oggettiva è soltanto un “pretesto” per scontrarsi e primeggiare sull’altro.

Un elemento distintivo della rivalità è la soggettività: essa esiste solo nella mente dei competitori. Per questo è spesso incompresa o ritenuta eccessiva dall’esterno. Un altro aspetto della soggettività sta nel fatto che sebbene spesso sia reciproca, possono verificarsi anche casi in cui viene sperimentata soltanto da un lato e non sia corrisposta dall’altro.

Ma cosa trasforma la competizione in rivalità? Gli studiosi affermano che la rivalità ha origini relazionali. Cosa significa ciò?

In primo luogo, la rivalità deriva da ripetuti “scontri” con lo stesso avversario, i quali lasciano un residuo psicologico che può protrarsi anche per lunghi periodi (si parla anche di anni!), e che influenza le successive interazioni.

Ciò avviene in particolar modo quando l’esito delle contese precedenti è stato definito da uno scarso margine di differenza. In questi casi è molto probabile che la situazione lasci tracce in memoria nella forma di pensieri controfattuali, del tipo “se le cose fossero andate in modo leggermente diverso… se non fosse stato per quel piccolo intoppo… sarebbe potuta andare diversamente…” Le ruminazioni e le sensazioni associate a tali ragionamenti fanno si che la competizione resti accessibile e fortemente presente nella mente del soggetto.

Altri motivi a base relazionale, sembrano essere la vicinanza e le caratteristiche dei soggetti: antagonisti situati in luoghi limitrofi risulteranno più visibili, salienti e presenti nella mente dell’altro. Inoltre la teoria del paragone sociale postula che le persone cercano conferma del proprio valore confrontandosi con soggetti che ritengono essere al loro stesso livello. Quindi la somiglianza, in termini di luoghi e di attributi, favorisce l’insorgere di rivalità.

Ma la competizione fa bene o fa male? Ancora una volta, “in medio stat virtus”!

In diverse aree della psicologia, da quella orientata al lavoro a quella sportiva, si è notato che una sana competizione favorisce la prestazione e incrementa la motivazione. Tuttavia una smodata “foga” di riuscire meglio sull’altro e l’accanimento al risultato, portano ad un’eccessiva attivazione fisiologica che mal di sposa con l’esecuzione di alcune attività, specie quelle che richiedono particolare attenzione, concentrazione e/o coordinazione motoria.

Infine, bisogna tenere in considerazione che la rivalità ossessiva può sfociare in comportamenti ossessivi e/o compulsivi di vario tipo, disturbi d’ansia e dell’umore, nonché produrre atteggiamenti violenti ed antisociali ed incrementare la formazione di stereotipi e pregiudizi. Può quindi inficiare anche sul benessere e la salute mentale individuale e sociale.

 

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Dott.ssa Chiara Francesconi

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